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In Italia 2 persone con malattia cronica su 3 sono insoddisfatti del dialogo con il medico che li segue, percepito come "scarsamente empatico, motivante, coinvolgente". Pazienti prigionieri di una visione rassegnata, o addirittura pessimista, sulla propria condizione e su ciò che li aspetta. Un sentimento alimentato da un'interazione focalizzata più sulla patologia che sulla persona: "Troppi tecnicismi e burocrazia, poca centralità del malato". È la fotografia scattata da un'indagine condotta da Helaglobe in collaborazione con diverse associazioni di pazienti aderenti al progetto 'Insieme per', sulla base di 414 storie di persone con malattie croniche, in prevalenza infiammatorie o genetiche rare, e dei loro caregiver. I risultati sono stati presentati recentemente in Senato durante il seminario istituzionale 'Dall'ascolto al dialogo: la relazione medico-paziente', promosso dalla senatrice Ylenia Zambito, segretaria della X Commissione permanente Affari sociali, sanità, lavoro pubblico e privato, previdenza sociale.

La ricerca restituisce "un percepito insoddisfacente della relazione con il medico, in particolare lo specialista, nel momento della prima comunicazione (la diagnosi) della malattia e nei successivi anni di terapia, che si prolunga in media per poco meno di una decina d'anni. Circa un terzo dei pazienti - spiega una nota - ha una proiezione positiva sulla propria malattia", mentre "il restante si cronicizza in modo pessimista sulla propria condizione. Complice anche le modalità di comunicazione del medico", che viene sentito distante in un dialogo "più incentrato sulla cura della patologia", su elementi come "i controlli da effettuarsi nel tempo o gli aspetti più burocratici", e che "trascura invece parole e aspetti del lato umano della malattia, legati alla cura della persona, al suo coinvolgimento motivazionale a fronteggiare, reagire, resistere, gestire la propria condizione clinica. Fattori determinanti" per chi vive la sofferenza sulla propria pelle.

"L'umanizzazione della medicina - dichiara Zambito - ha come punto di forza e di fulcro il concetto del 'paziente al centro', che tuttavia sembrerebbe oggi vacillare. Invece le parole del medico hanno anche la potenziale capacità di agire sul vissuto di malattia, influenzandone il presente, rielaborandone il passato, orientandolo al futuro, impostandone la nuova relazione con gli altri. La relazione positiva con il medico è un fattore di 'coping' essenziale anche per il caregiver, da cui poter trarre equilibrio e supporto per la convivenza con una situazione di patologia cronica, debilitante e grave, che spesso vive con difficoltà".

Oltre il 60% dei pazienti - emerge dall'indagine - parla della propria malattia in termini di 'illness' e non di 'disease'. La racconta cioè non come mera alterazione della struttura e della funzionalità degli organi, bensì come esperienza che impatta sulla qualità della vita in termini di relazioni, cambio di abitudini, emozioni, rottura con il passato e visione del futuro. "È importante che il paziente comprenda la sua malattia e arrivi preparato e in grado di formulare domande appropriate al medico, in modo da ottimizzare il tempo della relazione e della visita - sottolinea Alessandro Boni, segretario dell'Associazione Palinuro - Noi associazioni e federazioni di pazienti possiamo porci come facilitatori di questo percorso di consapevolezza del paziente, di conoscenza della propria malattia e di un minimo alfabeto medico. Siamo persone, non contenitori della nostra malattia".

Giordano Beretta, presidente della Fondazione Aiom, riflette in particolare sulla comunicazione in oncologia che "è una questione complessa. Soprattutto oggi, in tempi di terapie innovative - evidenzia - è fondamentale costruire una solida relazione tra medici e pazienti, contraddistinta da lealtà e fiducia".

05/10/2023

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